
Ebbene si, è proprio il momento di iniziare a parlarne. Argomento complesso, lungo e articolato, e proprio per questo ne parliamo puntate. Oggi facciamo una breve introduzione.
Credo sia il momento perfetto per approfondire questa tematica proprio perché se ne sta parlando tanto ed è fondamentalmente sulla bocca di tutti. Ma proprio tutti tutti!
E quindi trovo giusto che abbiate le informazioni per giudicare da voi cosa sia veramente sostenibile, chi lo sia veramente e come applicare le informazioni con buonsenso.
Partiamo da un concetto innegabile, la moda non è sostenibile per definizione. Purtroppo è la seconda industria più inquinante dopo quella del petrolio, sia per materiali e trattamenti utilizzati sia per il suo naturale decadimento. Infatti sappiamo bene che la moda non ha solo una stagionalità invernale o estiva, ma ciò che andava di moda l’anno scorso quest’anno non va più. E quindi viene spontaneo, soprattutto per i modaioli ma credetemi ci cadiamo tutti, comprare quello che è di tendenza oggi e buttare quello che lo era ieri.
Questo trend di decadimento si è andato a consolidare direi negli ultimi vent’anni, fino ad arrivare all’eccesso dei nostri giorni. Prima degli anni ’80 non esisteva proprio il fast fashion e prima del 2002/2004 non aveva avuto l’esplosione che vediamo oggi nei negozi monomarca nelle città e nei centri commerciali. E nei nostri armadi. Prima la produzione era interna ad ogni stato.
Ad esempio un abitante italiano comprava vestiti fabbricati in Italia con materie prime italiane o al massimo europee. Oppure nei mercati così detti americani, con abiti che arrivavano dagli USA, spesso di seconda mano ma erano comunque di ottima qualità. Da qui si intuisce facilmente che i vestiti fossero di qualità ben superiore e anche più costosi rispetto a quello che troviamo oggi nei negozi. Ma proprio per queste due caratteristiche duravano di più di una stagione e pesava di più il culo (scusate il francese) comprare un capo nuovo perché appunto più costoso. Figurarsi buttare un capo fuori moda! No no no! Solo se irrimediabilmente rovinato.
Inoltre non avevamo questa smania di doverci cambiare i vestiti tutti i giorni. Ci sono lavori che lo richiedono, sicuramente, ma in tutti i ruoli in cui non si è a contatto con il pubblico o con una certa tipologia di clientela non era, e non è, affatto necessario. Anche se ultimamente ci hanno convinto del contrario.
Prima ancora degli anni ’70/’80/’90 inoltre i magazzini con gli abiti già pronti da indossare erano poco diffusi, il ready to weare (o pret a porter) come lo consciamo oggi nasceva infatti negli anni ’60/’70. Prima e durante questi anni le nostre nonne e mamme andavano dalla sarta, e ottenevano abiti durevolissimi, belli e visto il costo li facevano durare anni e anni. Con l’avvento del ready to weare si andava meno dalla sarta e di più nei negozi, in fondo è più comodo, ma comunque la qualità e a durevolezza erano quasi pari al capo sartoriale. Nascevano le mode, ma era raro buttare una gonna o una camicetta perché la stagione passata era di moda e oggi no. Se lo potevano permettere solo i ricchi.
E il trend è rimasto questo fino all’avvento della globalizzazione e dell’arrivo del fast fashion. Con la globalizzazione abbiamo potuto conoscere il mondo, usi e costumi di altre persone nel pianeta. E questo è fantastico, diciamocelo.
Però le grandi aziende hanno imparato anche altri trucchetti per massimizzare il loro guadagno (che di base non è sbagliato, le aziende non sono onlus, devono fatturare e guadagnare per sopravvivere). Ad esempio hanno imparato a de localizzare la produzione in aree del pianeta con manodopera a basso costo.
L’inizio della fine. Perché con materiali economici di scarsa qualità e manodopera a costo bassissimo posso ottenere abiti economici sì ma che durano poco. Posso instillare una sensazione di finto lusso nel consumatore e fargli comprare tanti vestiti, perché finalmente se lo può permettere. Anche se non gli servono davvero, costano così poco! E visto che i vestiti costano poco, ad ogni stagione non avrà il senso di colpa di buttare tutto e comprare nuovo daccapo. Se lo può permettere! Finalmente! E se si rovina dopo due lavaggi, chissene, costava poco, lo butto e ne compro altri due.
E per vent’anni buoni ha funzionato alla grande. Tutto questo però a scapito di danni ambientali, sfruttamento delle persone che cuciono, azzeramento delle economie che prima facevano lo stesso lavoro ma ad un prezzo più alto. E questa è stata la fine di molti marchi italiani ed europei di ottima qualità che si sono visti surclassare da montagne di vestiti a bassa qualità e basso costo. Ma che rendevano felice il consumatore perché aveva la sensazione di essere ricco. E tutti gli aspetti di sfruttamento gli sono stati attentamente nascosti, anche oggi. Nonostante infatti ci siano, per fortuna, blog e profili IG che ne parlano diffusamente, tante persone sono ancora beatamente all’oscuro del vero costo della moda. Sia umano, sia ambientale. Che poi sono la stessa cosa.
Ecco, questo è il primo passo che oggi voglio fare con voi, miei cari lettori. Come se fossimo sul divano di casa vostra a bere una tisana assieme, e vi racconto un po’ sulla sostenibilità della moda, degli esempi sfortunatamente negativi e da combattere e di quelli virtuosi che per fortuna stanno spuntando come margherite.
Mi ripeto, il discorso è lungo e complesso, e ci torneremo su più volte, ma l’importante è iniziare il percorso. E si inizia proprio con un primo passo, che se sei arrivato a leggere fin qui, hai già compiuto.
Ci vediamo alla prossima puntata!