
Anche in questo caso, un primo approccio, seguiranno sicuramente altre puntate. Un po’ perché l’argomento, come quasi tutto nel mondo della moda, è articolato è complesso. E poi perché è in continua evoluzione.
Iniziamo dalla definizione:
“ Settore del sistema moda che si propone di dare impulso allo sviluppo sociale e alla sostenibilità ambientale, nel rispetto dei diritti e delle condizioni di lavoro della manodopera impiegata. “ (def. Treccani)
Detta così sembra banale, sembra scontato che chi produce i nostri vestiti sia stipendiato adeguatamente e lavori in ambienti che non mettano a repentaglio la sua salute e la sua sicurezza.
Invece no. Questa bolla che è esplosa durante l’ultimo anno proprio a causa del Covid-19, che ha paralizzato quasi tutte le parti del pianeta ma in tempi diversi, ha messo sotto la lente l’intero sistema moda. E ha evidenziato come questo sistema non sia più sostenibile ne tanto meno etico.
Cosa succedeva dunque?
Come recita una delle campagne del movimento internazionale Fashion Revolution “Fast Fashion isn’t free. Someone, somewhere is paying”.
Che significa che se un capo di abbigliamento costa veramente poco, non è una grande occasione per noi di avere un armadio sempre rifornito spendendo niente. Significa che l’industria della moda, oltre a essere la seconda industria più inquinante al mondo, dopo quella petrolifera, ha dei costi umani insostenibili.
Questi costi, che definiscono l’impatto sociale si traducono in abusi sul lavoro, retribuzioni troppo basse, orari di lavoro eccessivi, straordinari forzati e malpagati e mancanza di sicurezza sui posti di lavoro.
Dello sfruttamento del capitale umano si è iniziato a parlare a seguito della tragedia di Rana Plaza, in cui il 24 aprile del 2013 crollò a Dacca una palazzina di otto piani dove erano collocate 5 diverse fabbriche tessili di abbigliamento per marchi internazionali. Immaginate piani e piani di macchine da cucire industriali, compresi i loro tavoli, fino all’ottavo piano. Di solito sono macchinari molto pesanti e vibrano tanto, e questo può causare danni e cedimenti strutturali nel luogo in si lavora. Pensate che in Italia è raro, se non quasi impossibile trovare questi macchinari in piani diversi dal piano terra. Proprio per motivi di stabilità strutturale e sicurezza dei capannoni. E di conseguenza dei lavoratori.
Nel crollo dell’edificio morirono 1.129 persone e ne rimasero ferite più di 2.500. Feriti che includono paralisi e arti amputati. Solo a seguito di questa terribile tragedia il mondo ha iniziato a rendersi conto delle conseguenze umane del frenetico mercato della moda.

Alcuni esempi e un po’ di numeri
In Guandong, Cina, le giovani donne arrivano a fare fino a 150 ore mensili di straordinari. Il 60% di loro non ha un contratto ed il 90% non ha accesso alla previdenza sociale. In Bangladesh i lavoratori che realizzano indumenti guadagnano 44 dollari al mese (a fronte di un salario minimo pari a 109 dollari). Spesso cuciono a casa o simili e hanno l’energia elettrica razionata, quindi per terminare il lavoro di dieci/ dodici ore possono metterci anche venti ore. Rimanendo a dormire accanto alla macchina per lavorare le ore utili.
Fashion Revolution ha stimato, nel corso di un’indagine condotta su 91 marchi di abiti, che solo il 12% di questi abbia intrapreso azioni dirette a garantire un salario minimo legale per i propri lavoratori. A fronte però di guadagni sempre stratosferici.
ll Bangladesh Child Right Forum stima che siano 7,4 milioni i bambini bangladesi costretti a lavorare fin da piccoli per contribuire al mantenimento delle proprie famiglie, divenendo vittime di abusi e torture nel 17 % dei casi.
(Dati Fashion Revolution e Dress The Change)
Avere manodopera a costi così bassi, in realtà produttive prive di norme sulla sicurezza del lavoro, consente alle multinazionali che fanno la moda ampi guadagni. E proprio per questo motivo in Italia non si produce quasi più, perché il costo del lavoro è alto, la nostra manodopera specializzata costa il giusto e gli operai e le operaie lavorano in ambienti sicuri.
Per questo motivo si è delocalizzato prima nei paesi dell’est come Albania, Moldavia, Croazia ecc… e poi, siccome i salari sono aumentati anche lì (giustamente) la produzione si è spostata in Cina e poi in Bangladesh e continua a spostarsi finché troverà manodopera a basso costo.
E la qualità?
Va a farsi benedire. Sia quella della vita dei lavoratori, sia del prodotto finale che arriva a noi. Perché per produrre a costi così bassi, qualcosa bisogna penalizzare. Quindi si deve produrre a ritmi forsennati, veloci, tanto se è fatto male, con le cuciture storte, con un lato più lungo e uno corto, o una produzione in serie con tutti capi leggermente diversi, non importa. Non se ne accorge nessuno, e poi costa poco, lo metto una volta e lo butto. E se nel produrre il pantalone a 29,90 € un lavoratore o una lavoratrice infilano una mano sotto la macchina, per la fretta, e rimangono invalidi, non importa. In occidente non diciamo niente e non lo scopre nessuno.
Quindi noi cosa possiamo fare?
Agire come consumatori informati e scegliere di conseguenza. Da sapere che l’elemento caratterizzante l’impresa di moda etica è la trasparenza. Solo attraverso una filiera di produzione trasparente è possibile monitorare che non avvengano abusi umani ed ambientali.
Ovviamente i capi di abbigliamento realizzati in modo etico hanno, per loro stessa natura, dei costi più elevati rispetto ai prodotti della fast fashion, che hanno oramai falsato il mercato dell’abbigliamento imponendo una corsa spregiudicata al ribasso dei prezzi.
Un capo di abbigliamento realizzato da un lavoratore che riceve un salario minimo, che lavora in condizioni di sicurezza e con un contratto di lavoro, da un’impresa che osserva le normative ambientali e preserva l’ecosistema ha dei costi vivi da mantenere che non possono, e non devono, essere abbattuti.
Noi abbiamo un grande potere, il potere di acquisto: se sempre più consumatori iniziassero a richiedere capi di abbigliamento realizzati attraverso processi produttivi equi e dal basso impatto ambientale, sempre più imprese inizieranno ad indirizzare le loro scelte di mercato in queste prospettive. Con le nostre scelte possiamo orientare il mercato verso filiere etiche, verso un cambiamento. Se siamo tantissimi possiamo farcela.
Io spero sinceramente che le cose cambino, il movimento è partito e ora sta a noi, con le nostre scelte consapevoli provare a cambiare il mercato. E spero di avervi dato qualche strumento in più per farvi essere consumatori informati, che poi è uno dei miei principali obiettivi.
Ci vediamo presto con un’ altro approfondimento!
PS. Documentario da vedere “The true cost” , libro da leggere “Made in Italy, il lato oscuro della moda” di Giuseppe Iorio.