La taglia è solo un numero?

Per quanto mi riguarda si, e ora vi spiego perché. Partiamo però dall’inizio, come e perché sono state inventate le taglie?

Sono nate assieme al pret-à-porter, negli anni ’40, quando con l’avvento di una produzione seriale e industriale di vestiti già pronti si è reso necessario l’introduzione di un sistema per capire quale abito andasse bene al cliente. Prima non era necessario, si andava dalla sarta, e si realizzava tutto su misura. Quindi con la produzione a scala industriale è nata l’esigenza di avere delle taglie standard di riferimento.

Pensate che negli Stati Uniti, paese all’avanguardia nella produzione industriale di abiti, venne addirittura creata un’apposita commissione dal National Bureau of Standards. Il suo compito è stato misurare periodicamente svariate migliaia di donne, e ad elaborare statisticamente i dati raccolti, per determinare le taglie tipo.

Dopo circa un decennio, la commissione elabora 27 taglie-tipo che vengono condivise con i produttori di moda.
Successivamente questo sistema delle taglie venne esportato anche in Europa insieme al Piano Marshall. Le taglie dell’epoca erano molto piccole, le donne stese erano minute rispetto alla donna standard di oggi. Inoltre spesso erano denutrite, ricordate che uscivamo dalla seconda guerra mondiale, e venivano pagate per essere misurate. In tutti i paesi, non solo negli USA. Quindi abbondavano donne molto magre, ma per necessità. Infatti oggi chi compra vintage si può trovare in difficoltà proprio per questo fatto, le donne erano minute e molto magre. E le taglie molto piccole. Questo procedimento si vede, ed è spiegato molto bene, anche nel documentario sulla vita di Anne Burda e la nascita della famosa rivista di cartamodelli.

Per vari motivi, dagli anni ’70, l’adozione di queste taglie approvate da un ente non è più obbligatoria. E negli anni ’80 la commissione di ricerca dedicata viene addirittura abolita.

Oggi, sono istituti privati come Astm International a raccogliere i dati relativi alle misure antropometriche della popolazione, e ad elaborare in tabelle che diventano poi la base per creare le taglie dell’abbigliamento. Però non c’è nessuna legge che vincoli le aziende, e quindi ognuno le adatta alla propria produzione.

Ogni azienda ha una propria tabella delle taglie ed è per questo che in un negozio i pantaloni taglia 42 vi entrano comodi e in un altro la 44 non sale oltre il ginocchio. Non è colpa vostra. Ma.

A complicarci ulteriormente la vita esistono tanti meccanismi di vendita legati al numeretto sul cartellino, e alla psicologia. Ora vi racconto i due più famosi.

Il primo, tipico di grandi stilisti italiani ma anche stranieri, è produrre poche taglie e piccole. Prima di tutto perché è più facile sviluppare modelli e abiti per persone magre e senza curve. Significa meno tempo di lavoro e quindi meno spese. Personale meno esperto e specializzato, che costa meno. E anche il tessuto impiegato è poco, quindi si risparmia anche da lì. E poi si innesca nelle donne il meccanismo che devo entrare nella taglia disponibile di quel famoso stilista, perché è di moda, lo desidero tantissimo. Lo desiderano tutte. Ma visto che la taglia è piccola devo essere magra. Ma lo desidero e quindi dimagrisco o faccio di tutto per rimanere magra.

E poi c’è l’esatto contrario il vanity sizing un altro stratagemma per vendere di più. Un po’ meno cattivo.

Infatti le aziende si sono accorte che riducendo artificialmente le taglie degli abiti, si solletica la vanità dei clienti. E clienti felici comprano di più, soprattutto se si sentono gratificate e lusingate dal fatto di essere entrate in una taglia più piccola del solito.

In pratica il vanity sizing è un meccanismo per cui la taglia nominale (ovvero quella che è stampata sull’etichetta) è diventata più grande – in termini di centimetri – nel corso degli anni.
Ad esempio un girovita di 70 cm oggi corrisponde a una 42 mentre negli anni ‘80, lo stesso girovita (in cm) era riferito a una taglia 44. E andando indietro nel tempo, addirittura a una 46.

Il vanity sizing si è diffuso moltissimo a partire dagli anni ‘90, quando il marketing si è accorto che i clienti erano più propensi all’acquisto se riuscivano ad entrare in una taglia desiderabile, cioè più piccola.
Chi non è felice, quando riesce ad entrare in una taglia più piccola di quella che acquista di solito?
E chi non prova disagio e frustrazione quando la zip non sale, e si è costretti a chiedere una taglia in più?

Le case di moda si sono semplicemente accorte di questo meccanismo, e hanno cercato di volgerlo a proprio favore. Ovviamente.

E quindi, torniamo a noi, perché secondo me le taglie sono solo un numero? Perché quello sono. Certo, sono utili, perché aiutano noi che produciamo a fare effettivamente i vestiti, a capire cosa mettere addosso alle persone visto che produciamo in serie. Regnerebbe altrimenti la confusione, e non aiuterebbe il fatturato. Servono per orientarsi, diciamo. Ma non dovete fissarvi su quel maledetto numeretto sul cartellino, perché è solo, quello un numero. E gli stilisti che non producono oltre la 44, anche se sbandierano tanto l’inclusività, odiano le donne, non amano vestirle.

La prossima volta che provate un capo qualunque e non vi entra la vostra taglia, fate una roba semplice, cambiate negozio. Non pensateci nemmeno un minuto. Attenzione, questo articolo non è un inno all’obesità, mantenere una corretta alimentazione e stile di vita fa bene alla nostra salute. E un gesto di amore verso noi stessi. Non è salutare, però, spingersi all’estrema magrezza perché lo stilista di turno non produce oltre alla 42.

Vi ho convinti? Mi raccomando, eh. A presto!

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